Il mare è agitato oggi

E anche io un pochino.

Non è facile per me venire in vacanza con mia madre e mia sorella. Ma lo faccio spesso. Chissà cos’è, una forma di masochismo o un altro inutile tentativo di cambiare anche una piccola cosa ?

Ma poi lo so, è uno studio. per riuscire a trovare quella chiave per salvare me stessa anche se in una piccola cosa.

Approfondisco con la mente di un’adulta ciò che non comprendevo da bambina, ciò che mi ha turbato, segnato, insegnato. Ciò che ha forgiato le mie parti peggiori.

Le mie paure. Perché io ho paura, ho una costante paura di sottofondo.

Parlo spesso di sottofondo.

Ho tante sensazioni di sottofondo che mi accompagnano. Sono molteplici, io sono moltitudine. Una moltitudine di rumori di sottofondo.

E cosa c’è sopra a questo sottofondo?

Poco. Perché poco emerge, perché?

Semplice: ho paura.

Della rabbia, dell’ira, del disprezzo, dello sbaglio, di tutte le emozioni negative che mi ha incollato addosso mia madre e che io ho cercato, e cerco, di scollarmi e che si depositano nel sottofondo.

Mami vuoi un po’ di frutta?

Lei arriccia il naso, alza il labbro superiore a formare una esse con svirgola, il labbro inferiore lo segue, e scuote la testa disgustata nei confronti dell’argomento e disprezzando chi lo ha proposto.

Ecco un semplice: no grazie Maria Emma al momento non ne ho voglia, sarebbe andato bene.

Ma il “no” mia madre lo esprime così, con il disgusto e il disprezzo.

E se questa è la misura in cui esprime il suo rifiuto nei confronti di una pietanza di cui in quel momento non ha voglia, la misura in cui esprime un “no” su richieste ritenute da una bambina molto importanti… è devastante.

E quando ero bambina questo sguardo e questa senso di disgusto mi terrorizzavano.

Ecco perché vengo in vacanza con loro, per consolare la Maria Emma bambina.

Citazioni da: “La passeggiata dell’ubriaco” di Leonard Mlodinow – Edizione Rizzoli

Nuotare in senso opposto alla corrente dell’intuito è difficile: come vedremo, la mente umana è progettata per identificare una causa precisa per ogni evento e quindi può avere difficoltà ad accettare l’influenza di fattori non collegati o casuali.

Quindi il primo passo è capire che il successo o il fallimento a volte non derivano né da grandi abilità né da grande incompetenza ma, come scrisse l’economista Armen Alchian, da “circostanze fortuite”.

I processi casuali sono un meccanismo fondamentale in natura e pervadono le nostre vite ogni giorno, eppure la maggioranza delle persone non li comprende né ci riflette su.

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“Regressione verso la media”: in ogni serie di eventi casuali, un evento straordinario ha alte probabilità di essere seguito, per puro caso, da uno più ordinario.

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…gli essere umani per necessità impiegano certe strategie per ridurre la complessità delle situazioni da giudicare, e in quel processo l’intuito sulle probabilità svolge un ruolo importante.

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Un abisso di casualità ed incertezza intercorre tra la creazione di un grande romanzo – o un gioiello, o un biscotto alle scaglie di ciocciolato – e la presenza di altissime pile di quel romanzo – o gioielli, o scatole di biscotti – all’ingresso di migliaia di negozi.

E’ per questo che le persone di successo in ogni ambito sono quasi sempre membri di uno stesso gruppo: il gruppo delle persone che non si arrendono.

Molte cose che ci accadono, il successo nel lavoro, negli investimenti, nelle decisioni importanti e meno importanti,  dipendono in parte da fattori casuali e in parte da abilità, competenze e duro lavoro.

Quindi la realtà che percepiamo non è un riflesso diretto delle persone o delle circostanze che ne sono alla base, ma è piuttosto un immagine sfocata, su cui agiscono forze esterne imprevedibili e variabili.

Non vuol dire che l’abilità non sia importante, anzi è uno dei fattori che aumentano la probabilità di successo; ma il legame tra azioni e risultanti non è diretto come ci piace credere.

[…] Decidere in che misura un esito sia dovuto all’abilità e in che misura invece alla fortuna, non è una faccenda semplice.

Gli eventi casuali spesso si comportano come acini di uvetta in una scatola di cereali: si aggregano in gruppi, in strisce, in grappoli.

E se la dea bendata è equa nel distribuire le potenzialità, non lo è altrettanto nei risultati.

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Euristica della disponibilità: nel ricostruire il passato diamo troppa importanza ai ricordi più vividi e quindi più facili da recuperare.

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Di recente gli psicologi hanno scoperto che la capacità di perseverare di fronte agli ostacoli è un fattore del successo almeno altrettanto importante del talento puro. E’ per questo che gli esperti parlano spesso della regola dei dieci anni: ci vogliono almeno dieci anni di duro lavoro, dedizione ed impegno per avere grande successo in quasi tutti gli ambiti.

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E’ la natura umana che ci spinge a cercare schemi e ad assegnare loro un significato quando li troviamo.  Kahneman e Tversky hanno analizzato molte delle scorciatoie che impieghiamo per valutare le regolarità riscontrate nei dati e per esprimere giudizi in condizioni di incertezza e le hanno soprannominate euristiche.

[…] le euristiche possono condurre ad errori sistematici. Kahneman e Tversky chiamavano questi errori “bias”, distorsioni: tutti usiamo le euristiche e tutti cadiamo vittima di distorsioni.

[…] E così alla fine del novecento si è iniziato a studiare come la mente umana percepisce la casualità. I ricercatori sono giunti alla conclusione che “le persone hanno un’idea molto errata della casualità: non la riconoscono quando la vedono e non sanno produrla quando ci provano”.

[…]Agli esseri umani piace esercitre il controllo sull’ambiente che li circonda. […] Il nostro desiderio di controllare gli eventi non è privo di scopo, perché un senso di controllo personale è necessario per la nostra autocoscienza e autostima. […] se gli eventi sono casuali, noi non possiamo controllarli, e se possiamo controllarli allora non sono casuali. C’è dunque una contraddizione di fondo tra la nostra esigenza di controllo e la nostra abilità di riconoscere la casualità. Questa contraddizione è uno dei motivi principali per cui sbagliamo ad interpretare gli eventi casuali.

[…] La Langer ha dimostrato ripetutamente come l’esigenza di controllo interferisca con l’accurata percezione degli eventi casuali. […] attribuiamo molto più valore ai risultati e alle nostre capacità di influenzarli. E così nella vita reale è ancora più difficile resistere all’illusione del controllo.

[…] Le ricerche hanno evidenziato che l’illusione di poter controllare gli eventi casuali è più intensa in ambito finanziario, sportivo e soprattutto aziendale, in cui un esito casuale è preceduto da un periodo di attività strategica, quando il compito richiede un coinvolgimento attivo, o quando c’è una competizione. Il primo passo per sconfiggere l’illusione del controllo è esserne consapevoli.

[…] Quando siamo in preda ad un’illusione invece di cercare modi per dimostrare che le nostre idee sono sbagliate, di solito cerchiamo di dimostrare che sono giuste. Gli psicologi lo chiamano “bias di conferma”, ed è un grosso ostacolo che ci impedisce di interpretare correttamente la casualità.

[…] Come scrisse nel 1620 il filosofo Francesco Bacone: “l’intelletto umano, quando trova qualche nozione che lo soddisfa, o perché ritenuta vera, o perché avvincente e piacevole, conduce tutto il resto a convalidarla ed a coincidere con essa. E, anche se la forza o il numero delle istanze contrarie è maggiore, tuttavia o non ne tine conto per disprezzo, oppure le confonde con distinzioni e le respinge, non senza grave e dannoso pregiudizio, pur di conservare indisturbata l’autorità delle sue prime affermazioni”.

 Quel che è peggio, non solo preferiamo cercare prove che confermino le nostre nozioni preconcette, ma inoltre interpretiamo le prove ambigue in favore delle nostre idee. Questo può essere un grosso problema perché i dati sono spesso ambigui, quindi ignorando alcuni schemi ed enfatizzandone altri possiamo essere condotti a rinforzare le nostre convinzioni anche in assenza di dati persuasivi.

[…] Quindi anche schemi casuali possono essere interpretati come prove convincenti, se si relazionano alle nostre nozioni preconcette.

 Il bias di conferma ha molte conseguenze spiacevoli nel mondo reale.

Con l’evoluzione il cervello umano è diventato molto efficiente nel riconoscimento degli schemi ricorrenti: ma come mostra il bias di conferma, ci concentriamo sul trovare e confermare schemi anziché sul minimizzare le nostre false conclusioni.

[..]

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[…] quanto contribuisce la casualità al nostro presente? E fino a che punto siamo in grado di prevedere il futuro?

Molti studiosi di scienze umane, dal tardo Rinascimento all’età vittoriana, condividevano le idee deterministiche di Laplace.

Ritenevano, come Galton, che la nostra vita fosse determinata dalle nostre qualità personali o, come Quételet, pensavano che il futuro della società fosse prevedibile.

Spesso traevano ispirazione dal successo della fisica newtoniana e credevano che il comportamento umano fosse prevedibile con la stessa attendibilità degli altri fenomeni naturali.

[…]Negli anni sessanta, un metereologo di noeme Edward Lorenz cercò di impiegare le tecnologie all’avanguardia per applicare le teorie di Laplace nell’ambito limitato della meteorologia.

[…] Solitamente gli scienziati partono dal presupposto che se le condizioni iniziali di un sistema vengono leggermente alterate, il sistema evolverà in maniera leggermente diversa.

[…] ma Lorenz scoprì che queste piccole differenze conducono a enormi variazioni nei risultati. Il fenomeno fu battezzato: “effetto farfalla”: mutamenti atmosferici così piccoli che potrebbero essere stati causati dal battito d’ali di una farfalla possono avere enormi ripercussioni sull’evoluzione delle condizioni meteo in tutto il mondo.

[…] In realtà accade proprio questo: per esempio il tempo perso per ber un caffè potrebbe farci incontrare la nostra futura moglie alla stazione, o impedirci di essere investiti da un auto che passa con il rosso.

[…]Quando ci guardiamo indietro e ricordiamo gli eventi più significativi della nostra vita, non è raro riuscire ad identificare simili eventi caotici, apparentemente, irrilevanti, che invece hanno generato grandi cambiamenti.

***

Il determinismo negli affari umani non risponde a criteri di prevedibilità cui alludeva Laplace, per vari motivi.

In primo luogo, per quanto ne sappiamo, la società non è governata da leggi chiare e fondamentali come è la fisica.

Anzi il comportamento delle persone non è solo imprevedibile ma, come hanno mostrato ripetutamente Kahneman e tversky, spesso è anche irrazionale.

In secondo luogo, se anche potessimo scoprire le leggi degli affari umani, come cercò di fare Quételet, è impossibile conoscere o controllare precisamente le circostanze della vita.

E in terzo luogo gli affari umani sono così complessi che difficilmente potremmo svolgere i necessari calcoli quand’anche comprendessimo le leggi e possedessimo di dati.

Di conseguenza il determinismo è un modello inefficace per descrivere l’esperienza umana. O, come scrisse il premio Nobel Max Born: “la casualità è un’idea più fondamentale della causalità”.

Nello studio scientifico dei processi casuali, la passeggiata dell’ubriaco rappresenta l’archetipo: ed è anche un modello adatto a descrivere le nostre vite, perché come i granuli di polline che galleggiano nel fluido browniano, anche noi veniamo continuamente sospinti qua e là dagli eventi casuali.

Di conseguenza benché nei dati sociali si possano trovare regolarità statistiche, il futuro dei singoli individui è impossibile da prevedere: e per i nostri successi, il lavoro, gli amici, i soldi, siamo debitori al caso più di quanto si possa pensare.

[…] anche nelle nostre vite, a ben guardare, ci accorgiamo che molti grandi eventi sarebbero andati diversamente se non fosse stato per la confluenza casuale di fattori minori, persone incontrate per caso, opportunità di lavoro che ci sono capitate fortuitamente.

[…] un percorso punteggiato da impatti casuali e conseguenze inattese è il percorso compiuto da molte persone di successo, non solo nella carriera, ma anche in amore, negli hobby, nelle amicizie. Anzi, è più la regola che l’eccezione.

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[…] non ci accorgiamo degli effetti della casualità sulla vita perché quando valutiamo il mondo tendiamo a vedere ciò che ci aspettiamo di vedere.

[…] Il filo che lega l’abilità al successo è al contempo allentato ed elastico. E’ facile trovare buone qualità nei libri di successo, o riscontrare carenze nei manoscritti inediti, o nelle persone che lottano per affermarsi in ogni campo. E’ facile credere che le idee che hanno funzionato fossero buone idee, i piani che hanno avuto successo fossero ben congegnati, e che le idee e i progetti non coronati dal successo fossero sbagliati fin dall’inizio.

[..] ma l’abilità non garantisce risultati, né i risultati sono proporzionali all’abilità. Quindi è importante tenere sempre in mente l’altro termine dell’equazione: il ruolo del caso.

[…] Può essere una scoperta anche solo rendersi conto dell’ubiquità dei processi casuali nelle nostre vite, il vero potere della teoria dei processi casuali risiede però nel fatto che, una volta compresa la natura di tali processi, possiamo alterare il nostro modo di percepire gli eventi che accadono intorno a noi.

***

Ho scritto questo libro nella convinzione che possiamo riorganizzare il nostro pensiero di fronte all’incertezza: possiamo diventare più bravi a prendere decisioni  e frenare alcuni pregiudizi che ci spingono a dare giudizi errati e fare cattive scelte. Possiamo cercare di capire la qualità di una persona o di una situazione prescindendo dai risultati e possiamo imparare a giudicare le decisioni in base allo spettro di esiti che avrebbero potuto produrre, anziché in base al particolare risultato che si è concretizzato.

***

[…] credo sia importante pianificare se lo facciamo ad occhi aperti.

Ma la cosa più importante che mi ha insegnato l’esperienza di mia madre è che dobbiamo apprezzare la fortuna che abbiamo, e individuare gli eventi casuali che contribuiscono al nostro successo.

Mi ha insegnato anche ad accettare gli eventi fortuiti che possono procurarci dolore. Soprattutto mi ha insegnato ad apprezzare l’assenza di sfortuna, l’assenza di eventi che avrebbero potuto metterci in crisi, e l’assenza di malattie, guerre, carestie e di quegli incidenti che non ci sono capitati.

Vita di PI – Pubblico Impiegato- Riflessioni XXXIII

La mia capa la riconosci subito, è quella che sorride sempre e io diffido di chi sorride sempre.

È quella che è sempre contenta di venire a lavorare e io diffido di quelli che appaiono sempre contenti di andare a lavorare.

È quella che arriva sempre per ultima in ufficio oltre l’orario previsto di ingresso salutando a voce alta scandendo i nomi di tutti mentre percorre trafelata il corridoio.

È quella che “sono appena arrivata devo prendere il caffè altrimenti non connetto” e intanto si fanno le dieci del mattino.

È quella che chiama alla sua corte i suoi adepti per tenerle compagnia durante il caffè per ciacolare di quanto è stanca perché le è successo questo e anche quello, ma pensa te.

È quella che soddisfatta del suo monologo “ma sono le 10.30 cosa fate qui andate subito a lavorare” con sottofondo di battito di mani.

È quella che “ma che carina questa borsa dove l’hai presa?” – in vacanza in Inghilterra questa estate – “E perché non l’hai comprata anche per me!?”.

La riconosci subito perché è un’ape fucaiola che si crede un’ape regina, tuttavia nella realtà è una semplice ape operaia ovificatrice la cui sopravvivenza è garantita esclusivamente in assenza di un’ape regina la quale inibirebbe lo sviluppo del suo apparato riproduttore.
Il suo apparato riproduttore infatti è in grado di deporre uova sì, ma non fecondate e ne depone un numero indeterminato, più sono meglio è.
Da queste uova nascono e si sviluppano i fuchi e l’ape fucaiola ha bisogno dei fuchi, la mia capa si circonda così di un indeterminato numero di fuchi, i mei colleghi.
E come ben sanno gli apicoltori un alveare non sopravvive in caso di presenza di api fucaiole, perché generando esclusivamente fuchi l’alveare non avrà lunga vita.

Ora io vorrei continuare con questa similitudine, ma mi sono un po’ incartata.
La verità è che mentre scrivevo ho saputo che la notizia che girava ufficiosamente è diventata ufficiale.
L’ape fucaiola se ne va, da fine gennaio non sarà più la mia capa, colei che ha reso il mio 2018 l’unico anno veramente orribile della mia vita lavorativa se ne va.

Ed io sono veramente felice.

Perché sì è vero i miei racconti sulla mia vita da impiegato sono sempre pieni di insoddisfazione lavorativa, ma mai e dico mai ho passato un anno così intriso di falsità, di cattiveria, di livore, di invidia, di gratuite meschinità come quello che mi ha fatto vivere lei e più cercavo di risolvere la situazione con le buone più lei si accaniva, più cercavo di risolver la situazione con le cattive più lei si inaspriva.

Ciao ape fucaiola.

So bene che si dice che al peggio non c’è mai fine e quindi può darsi che chi arriverà dopo di lei non sarà forse molto meglio, ma non credo di poter incontrare ancora una persona così capace di generare in me un malessere così profondo.

Ancora ciao ape fucaiola avevo pensato di dedicarti diversi post, un po’ per sfogarmi, un po’ per esorcizzarti, ma ora sapendo che non dovrò più avere rapporti lavorativi gerarchici con te ho deciso che non ti dedicherò più neanche un piccolo pensiero, figuriamoci dei post.

Vita di P.I. – Pubblico Impiegato – Riflessioni XXXII

Certo, si, ti devo aggiornare sulle mie novità lavorative, perché nel corso del 2018 c’è stato un avvicendamento dei vertici.

È cambiato il direttore e il vice direttore.

Il mio capo se ne è andato ed io ho una nuova capa.

Ho cambiato servizio e quindi ho cambiato colleghi.

La mia nuova capa ha deciso di farmi cambiare materia lavorativa e quindi sto imparando, o meglio mi sto barcamenando in totale assenza di formazione e affiancamento.

Ma al momento non ho tempo, quindi ti faccio solo un piccolo flash per farti capire come sto.
Un piccolo flash sulla cena di fine anno con la mia nuova capa e i miei nuovi colleghi.

Le abbiamo fatto un regalo di Natale con annesso biglietto da firmare.
Ecco la mia firma come sai perché comprare in tutte le foto del blog è questa.

Al momento di firmare il biglietto del regalo per la capa la mia firma è venuta più o meno così.

Ora io non sono un’esperta calligrafica, ma non credo ci sia bisogno di esserlo per capire quanto malessere ho dentro e quanto non mi trovi molto bene in questo nuovo gruppo, con questa nuova capa e con questa nuova materia lavorativa.

Sensi di colpa 

Mi sento in colpa se sono felice.

Mi sento in colpa se ho un giorno di ferie e lo dedico solo a me stessa non portando mia madre da qualche parte.

Mi sento in colpa se ho un giorno di ferie e porto mia madre da qualche parte non dedicandolo solo a me stessa.

Mio padre mi dice, porta a fare un giro tua madre, mi sento in colpa perché non ho alcuna voglia di portare in giro mia madre, perché mia madre porta in giro con sé una sensazione di incompletezza, di malinconia e io mi sento in colpa anche per questo.

Io l’ho vista felice solo nelle foto del suo matrimonio, e nelle foto del matrimonio di mia sorella, e nelle foto del mio matrimonio.

Però il suo matrimonio non la completa, mia madre dice che ha sempre rinunciato alle sue esigenze per soddisfare quelle di suo marito.

Però mia sorella ha divorziato, mia madre di che che un matrimonio è anche fatto di rinunce, non si possono soddisfare solo le proprie esigenze a discapito di quelle del marito.

Però io non mi sono sposata in chiesa, mia madre dice che non è sicura che sia valido ugualmente, dice che ha chiesto conferma ad un prete.

Però il prete ha detto che è valido ugualmente, mia madre questa volta tace. Un silenzio rimbombante.

Probabile che pensi che brucerò all’inferno.

D’altra parte oltre a non essermi sposata in chiesa ho portato a sopprimere, per evitare ulteriori atroci sofferenze dovute alla malattia, il mio cane, mia madre dice che ha chiesto al prete se è omicidio. Però il prete ha detto che non è omicidio. Mia madre questa volta pare che creda al prete.

Ecco poi ora ci penso e mi sento in colpa: non è tutto vero quello che dico, ossia è vero, ma io a mia madre voglio molto bene e quindi mi sento un’ingrata, piena di sensi di colpa.

Così su due giorni di ferie il primo lo dedico solo a me stessa, combattendo anche un po’ con i sensi di colpa, ma il secondo lo dedico anche a lei, sempre combattendo con i sensi di colpa.

Perché ne avevo due.

E se ne avessi avuto uno?

Mia madre in macchina dice che stava pensando, poco prima che arrivassi, che spera di morire in ospedale perché se muore a casa può darsi che il suo medico di base si rifiuti di fare il certificato di morte, o può darsi che il suo medico di base muoia prima di lei, ma dice che poi si è consolata pensando che mio marito di medici ne conosce tanti, troverà qualcuno che farà il certificato di morte per sua suocera.

Mamma mi sembra un ottimo primo argomento di conversazione, molto allegro.

Ma a me Maria Emma la morte non mette tristezza, spero che Dio mi porti in paradiso, dove starò sicuramente meglio.

Mamma allora non ci incontreremo perché io sarò quella che brucia all’inferno per aver commesso omicidio e aver contratto un matrimonio civile.

E per non riuscire a combattere i sensi di colpa.

In my shoes – Tipe gelose

Mi hanno detto che assomiglio al mio cane, il mio cane femmina per la precisione
Lei abbaia molto raramente.
Una di queste rare volte è stata ieri.
Perché Lui ha un cane.
Maschio.
Eravamo andati a prendere un aperitivo e loro si sono avvicinato ad una ragazza con un cane femmina, noi eravamo distanti, li guardavamo, lei immobile, con lo sguardo fisso ha abbaiato.
Così, un paio di bau, decisi, profondi.

Mi hanno detto che assomiglio a lei perché lei non abbaia.
Se non le sta bene qualcosa attacca e basta, ti prende al collo senza avvertimenti e vuole o farti fuori o sottometterti.
Lei è così.

Mi hanno detto che sono così anche io.
Che non avverto.
Che attacco al collo senza preavviso.
Punto.

Perché poi alla fine è vero, è capitato che attaccassi al collo. Metaforicamente. Credo solo perché non ho i denti sufficientemente sani.

Quello che non mi torna è solo che io pensavo di avvertire prima.
Evidentemente non lo faccio a sufficienza.
Perché pare che non se ne accorgano, pare che se attacco al collo sembra che non ci sia un motivo preciso.
Ma io e il mio cane lo sappiamo che c’è un motivo preciso.
E vi avvertiamo anche.
Siete voi che non volete capire.

E poi sì: siamo delle tipe gelose e oggi vogliamo avere ragione noi.

Vita di PI – Pubblico Impiegato – Riflessioni XII

Passo la tessera nei tornelli della metro come un flash mi riappare un fotogramma del sogno di questa notte risale il sapore amaro, ho sognato il mio vecchio posto di lavoro mischiato con il nuovo, senza nessun filtro le persone e i luoghi di due universi lontani si sono mischiate in un mondo onirico, mischiati insieme a coda di rospo, ali di pipistrello, Martini rosso, Campari, Absolut, un terzo – un terzo – un terzo, agitati e non schecherati, da servire con molte olive e molto in fretta.

La tessera magnetica diventava di carta e si scioglieva a contatto con la pozione, tirata fuori iniziava a bruciarsi, ma non prendeva fuoco, nessuna fiammata, lentamente i bordi venivano mangiati dal contorno nero che avanzava ondeggiante a poco a poco.

Lui è vestito con la camicia bianca e una sottile cravatta scura, ricorda i programmi sentinella, anche se io preferisco sempre il Mr. Orange di Tim Roth.

Lei non è più contenta come prima di avere un nuovo capo, non dice più finalmente un uomo così ho finito con i capi donna cui devi raccontare la tua vita privata per farti benvolere perché è più importante quella che il lavoro.

La sorte ha voluto che avessimo gli stessi capi, in sequenza prima io poi lei.

L’autoreferenzialità le ha fatto credere di avere scoperto per prima i veri segreti celati dietro alle persone.

Lei è l’esploratrice che ha scoperto come va la vita qui dentro.

Lei entra in stanza e pontifica inasprendo ancora di più gli animi, già malconci.

Lei attizza il fuoco.
Ma il suo fuoco non fa fiamme, corrode e brucia in silenzio e senza avviso.

Lei si aspettava grandi cose.
Si aspettava che un uomo fosse più semplice.
Certamente si aspettava così.
Si aspettava che un capo uomo potesse essere gestito con il suo solito atteggiamento seduttivo, quello che io mi diverto tanto ad osservare quando lei lo sfoggia indistintamente con tutti i colleghi.
È divertente vedere il suo linguaggio del corpo.

E ora?
Ora però è delusa.
Ora è in empasse.
Ora che ha scoperto che il nuovo capo non lo conquisti con la seduttività, ora non sa come fare, non conosce altro modo per rapportarsi con un uomo.
Non ha la più pallida idea di come proseguire.
La rabbia le si legge in volto.
Lei racconta altre motivazioni.

Assolutamente condivisibili, perché io lo conosco e so come sia una gran brava persona da un punto di vista umano, preparatissimo da un punto di vista professionale, ma spesso impacciato nel ricoprire un ruolo di responsabilità e di coordinamento e organizzazione di un gruppo di persone.

E sono solo venti giorni.

Ci sarà da divertirsi.

In my shoes -Ricordi e quaderni

Stavo pensando di prendere un motorino o una macchinetta elettrica così, perché…te l’ho detto vero? Che ci stanno mettendo i tornelli.
Sì, neanche fossimo in catena di montaggio.
Quindi non vorrei fare tardi la mattina, ma se poi smetto di prendere la metropolitana poi tu ed io parleremmo molto meno, avremmo meno tempo a disposizione, perché la maggior parte delle volte lo facciamo quando sono in metro o mentre cammino per raggiungere le mie tappe pre e post ufficio, quindi sono combattuta.
Ci penserò.
Oggi.
Va bene insomma magari non solo oggi o non proprio oggi.

Oggi, piuttosto, mi era venuto in mente quello che è successo alcuni weekend fa, sai come sono fatta io, prima di raccontare qualcosa devo metabolizzare, ho i miei tempi, ma lo so che tu non te la prendi, ho avuto a come amica che invece se la prendeva, lei non accettava che io le raccontassi le cose in differita, lei voleva sapere tutto ciò che succedeva meglio se nel momento in cui accadeva, ma se non altro almeno entro le 6 ore successive, altrimenti non dimostravo di essere sua amica.

Ma io sono così, ho bisogno dei miei tempi e alle volte prima di raccontare qualcosa magari passano ore o giorni o mesi o anni oppure non le racconto proprio e rimangono solamente nei mie ricordi e però succede che un giorno mi accorgo che questi ricordi non raccontati sono diventati troppi nella mia mente ed è come se non ci fosse più posto come se lo spazio libero rimasto fosse insufficiente per contenerli tutti fosse diventato troppo angusto misero e tutti i ricordi fossero sacrificati lì dentro come se fossero tutti ammassati uno vicino l’altro i miei ricordi.

È come adesso nella metropolitana: parlano tutti, alcuni tra loro, alcuni al cellulare, che da quando hanno messo la linea è un disastro ci sono dei momenti in cui la confusione è tale che io non sento neanche i miei pensieri. Alle volte è così come se i miei ricordi avessero bisogno di uno sfogo, di una via di fuga come in questo momento in cui ne ho bisogno io, avrei bisogno di scendere sulla banchina e non sentire più la confusione.
E allora ne devo buttare fuori uno o due di ricordi per fare posto e farli stare più comodi, ma non è una cosa necessariamente pensata, loro, i ricordi, escono, si prendono il loro libero sfogo, si prendono lo spazio di cui hanno bisogno, approfittano della mia voce, la ingannano e io mi ritrovo a raccontarli.
Io, capisci?
Io, che al tempo non parlavo con nessuno che riempivo pagine di quaderni queli a quadretti mi piacevano i quaderni a quadretti con la copertina rigida e scrivevo, ecco perché quaderno mitico, li chiamavo così i miei quaderni: quaderni mitici, davano asilo ai miei ricordi sfrattati dalla mia mente.

E invece ad un certo punto della mia vita oltre che lasciarli all’inchiostro aggrappati a quelle pagine con i quadretti ho iniziato a lasciarli svolazzare insieme alle parole, li lasciavo volare e lasciavo che il mio interlocutore li raccogliesse e li raccontavo e magari non erano inerenti con l’argomento perché loro non mi avvertono e ne spingono fuori uno a caso il più vecchio o il più debole? O semplicemente quello più vicino all’uscita, quello che si era messo lì che pensava fosse un angolo sicuro invece era l’uscita e si ritrova fuori alla mercé del mio interlocutore.
No, non c’è criterio, ne esce fuori uno così e io mi ritrovo a raccontarlo e poi magari me ne pentirò, che avrei voluto alcuni rimanessero con me e basta e invece mi ritrovo a ricordare che alcuni ricordi li ho distribuiti a delle persone che ho incontrato nella vita glieli ho dati così in un giorno qualsiasi e poi magari queste persone può darsi che neanche le ho più riviste e pensare che loro vadano in giro per il mondo con un mio ricordo così che io gli ho donato senza volere un po’ mi fa strano.

Mi chiedo: cosa ci faranno con questi ricordi?

Li tratteranno bene, ne avranno cura ?

Oppure li lasceranno lì in mezzo ad una strada una sera di maggio magari, in centro, insieme ad una vodka di troppo, li lasceranno li sul marciapiede.
E poi verrano sciacquati via dall’acqua di quelle macchinette della società partecipata dal comune.

Oppure li dimenticheranno.

Oppure ci sarà chi li ricorda, chi li conserva con cura, li custodisce per non farli appassire.

E ci sarà anche chi li ha regalati a qualcun altro come un regalo che non è piaciuto e lo hanno riciclato.

Perché tu non hai mai riciclato un regalo?
Io sì.
Però i racconti no, le confidenze non le ho mai riciclate, le confidenze che mi hanno fatto le ho sempre tenute per me.

Sì un po’ sono cambiata con il lavoro da impiegata un po’ mi sono ritrovata in mezzo a tante parole che neanche volevo sentire e magari le ho anche riferite a mia volta, ma i ricordi degli altri mai.
Li custodisco e ne ho cura.

E alle volte mi fa paura pensare a chi ho dato i miei.

Però per esorcizzare questa paura allora ora li lascio nella rete.

Alcuni si incastreranno da qualche parte altri troveranno dei buchi e scopriranno altri mondi, altri saranno custoditi.
È questo il motivo, non riesco più a farli stare nella mia mente e basta.

Però ora ti volevo raccontare cosa è successo alcuni fine settimana fa e non l’ho fatto, ma la corsa è finita, scendo sulla banchina e mi godo la passeggiata un po’ nel mio silenzio.

Te lo racconto un’altra volta, forse ancora questo ricordo non era pronto a volare, forse doveva fare ancora un po’ di esercizio, come i falchetti che c’erano nella casa in campagna.

In my shoes – La timidezza

Certo se ci ripenso ora mi viene da ridere, alle volte solo da ridere di cuore, altre volte è una di quelle risate profonde che non riesci a smettere che inizia a mancarti il fiato e hai i singulti, quelle che però poi sono così profonde che toccano dei punti così inabissati che è come se i singulti si trasformassero in singhiozzi che poi sono la stessa cosa e ti accorgessi che le cose che stai ricordando alla fine ti hanno lasciato un po’ di amaro in bocca e dentro l’anima.

Perché sai, alcune di quelle cose che da piccola mi hanno segnato e mi hanno fatto soffrire col tempo le ho superate ed è come se le sensazioni che mi avevano provocato le avessi cancellate, ma altre invece col tempo si sono solamente sbiadite, sono come quel tatuaggio che ormai ho fatto saranno 20 anni e se lo guardi in qualche punto la pelle ne ha assorbito il tratto e certi contorni sono scoloriti mentre altri si sono fusi con quelli vicini e non è più facilmente riconoscibile cosa sia tranne che per me e se volessi potrei coprirlo con qualcos’altro e scomparirebbe alla vista, ma sotto ci sarà sempre.

Alcune cose della vita per me sono così.
Ed in particolare è così la mia timidezza e le cose che mi ha spinto a fare e le cose che mi ha spinto a non fare e come ho reagito a lei da piccola, da adolescente e come reagisco a lei ora.

Adesso se penso ad alcune vicende di quando ero piccola legate alla mia timidezza rido e sono quelle risate lì, quelle profonde che però ogni tanto sono amare, tanto amare, e altre volte invece sono risate che escono fuori con gusto e l’altra volta passeggiavo col mio cane, quello più anziano, quello che ora quasi non riesce più a camminare, quello che mi piacerebbe tanto potesse parlare perché un’ancora di salvezza alle volte dovrebbe poter parlare e mi è venuto in mente un episodio.

Non so come mi sia venuto in mente, ma mi capita così quando passeggio con il mio cane e lo guardo e lo vedo sfiorire, mi vengono in mente i ricordi più strani anche se con lui magari non c’entrano nulla.

Insomma, l’altro giorno mi è venuto in mente quell’estate, avrò avuto circa 5 anni ed ero timida, così timida da non parlare, che detto così sembra che lo fossi solo quella particolare estate, ma invece no, lo ero anche prima e poi anche dopo e poi anche ora, è che non so come spiegarmi, che mica è facile spiegare come mi faceva sentire la timidezza, che quando mi dicevano ma di che ti vergogni poi non sapevo spiegarlo bene, non so farlo nemmeno ora.

Vediamo, potrei dire che era come se mi sentissi all’interno di una scatola, una grande scatola, magari non molto grande, una media scatola, va bene anche una piccola scatola, di quelle che hanno le pareti come nelle sale di registrazione, tutte foderate di materiale fonoassorbente, morbido, che è fatto a forma di tante piramidine che fuoriescono e vengono verso di te, e la mia timidezza mi faceva sentire come fossi lì dentro, e mi accorgevo di essere lì dentro, e lì dentro non mi piaceva, e sarei voluta uscire, ed era come se urlassi alla timidezza di lasciarmi in pace, ed era come se lei non mi sentisse con tutte quelle piramidine, ed era come se sbattessi i pugni sulle piramidine, ma tanto non si rompevano, ed era come se ci fosse stata un’uscita, io la vedevo, era come fosse una scatola con solo un lato aperto, magari proprio il lato alto, quello più difficile da raggiungere.
E vedi l’uscita e magari col tempo escogiti anche un metodo efficace per uscire, ma c’è sempre la timidezza li in agguato a deriderti quando non ce la fai, a demoralizzarti ulteriormente quando fallisci, a schernirti quando trovi il coraggio, e lo fa per paralizzarti, per non farti tentare.

Ecco, sai che mi viene in mente? Quel film, non so se lo hai mai visto quel film: cube, no non Ice Cube, no lui è un cantante, sì poi ha fatto dei film, intendo quel film dove alcune persone si ritrovano in una scatola di forma cubica con aperture su ogni lato che portano ad altre stanze cubiche con altrettante aperture ed in alcune di queste stanze esiste una trappola anche mortale e le stanze si muovono una intorno all’altra e loro non riescono a ricordare come sono finiti lì dentro e cercano di uscire e capiscono che le stanze sono numerate con potenze di numeri primi e i cubi si muovono secondo permutazioni che no, non ti saprei proprio spiegare bene cosa siano, ma per individuare le stanze senza trappole bisogna fare dei calcoli sui numeri primi e sono calcoli complicati e insomma se ne salva solo uno e quindi, quindi mi viene in mente la solitudine dei numeri primi e che ti ho svelato il finale del film.

Oppure, oppure non so se hai mai fatto uno di quei sogni in cui vorresti scappare e provi a correre, ma non riesci e i passi sono pesanti e le gambe non riesci a muoverle così veloci come vorresti e hai il fiatone dato dall’ansia e senti di essere in trappola e non riesci ad essere così veloce da scappare.

È come quando dici no non la faccio la pista rossa che casco, ma scii da 30anni e nei hai fatte altrettante di piste rosse e non è una novita la sai fare e però poi la fai e caschi e dici vedi sono cascata e hai fatto tutto da sola.

Non so se mi spiego.

La mia timidezza era subdola, mi condizionava nelle azioni, nei pensieri, anche nei semplici movimenti del corpo e nelle parole, le parole non dette o emesse celermente quasi a volersene disfare in fretta per paura, di cosa non so.

La mia timidezza era ingannatrice, tanto che, per assurdo, mi faceva fare e dire cose che invece che trarmi d’impaccio mi invischiava nella difficoltà e mi faceva sentire ulteriormente a disagio.

Un circolo vizioso creato dalle persone timide esclusivamente per loro stesse, per farle sentire ancora più timide e ancora più in soggezione.

E francamente non so neanche perché io stia utilizzando l’imperfetto o forse sì, perché in fondo è tutto lì, nell’imperfezione, ma è anche qui ed ora, ancora.

Ritorno a quell’estate quando eravamo in piscina e mio padre mi aveva chiesto di andare al chiosco a prendere due supplì e una crocchetta.

Io? Devo andare proprio io? Non può andare mia sorella? che lei è quella spigliata, io mi vergogno, mi vergogno!

Ed è ovvio che io queste parole le abbia solo pensate.

Mi vergognavo di chiedere a quelli del chiosco che conoscevo da tante estati di chiedere due supplì e una crocchetta, avevo così tanta paura come se avessi dovuto portare al chiosco una valigetta carica di esplosivo per far saltare in aria loro, la piscina, tutti gli ospiti, me, i miei genitori, e poi avessi dovuto negare di fronte ad un tribunale internazionale, che non so come avrei potuto fare a stare davanti ad un tribunale se ero saltata in aria con la valigetta…

Insomma mi incammino verso il chiosco, con un’andatura lenta, giusto per allontanare sempre più il momento cruciale e durante tutto il tragitto ripetevo nella mia mente tutti modi possibili per poter dire la frase, per arrivare al chiosco pronta per questa impresa che a me, dal fondo del pozzo infinito della mia timidezza, appariva epica, mastodontica, mi sentivo come Davide di fronte a Golia, solo che Davide poi ha vinto.

Due supplì e una crocchetta per favore. Buongiorno vorrei due supplì e una crocchetta, grazie. Buongiorno per favore due supplì e una crocchetta, grazie. Per favore prendo due supplì e una crocchetta.

Arrivo, mi avvicino al bancone, mi appoggio con le me mani, mi tiro su sulle punte, appoggio quasi il mento, mi sporgo, lui dietro al bancone mi guarda, dimmi mi dice, mi viene un colpo al cuore neanche lo stessi per rapinare, e mi esce veloce tutto d’un fiato:

due crocchì e una suppletta.

Cosa ho detto?
Due crocchì e una suppletta!??

E mi rimbomba nella mente:
Due crocchì e una suppletta!??
Due crocchì e una suppletta!??
Due crocchì e una suppletta!??

E ora mi viene troppo da ridere a ripensarci e l’altro giorno che passeggiavo col cagnone sono scoppiata a ridere così da sola ridevo e cercavo di fermarmi e poi riprendevo a ridere, oddio anche adesso un po’ mi scappa da ridere.

Ma allora non mi sono divertita affatto.

E non è che io diventassi rossa per la vergogna.
No.
Io diventavo viola.
Wroom.
Tutto d’un tratto.
Wroom.
Viola.
Dal bianco.
Al viola.
Senza passaggi intermedi.
E lo sentivo, me ne accorgevo.
Il viso, wroom, diventava bollente, lo sentivo trasformarsi in una maschera incandescente.
E me ne accorgevo ma non riuscivo ad evitarlo era questione di millesimi di secondo.
Neanche i centesimi di secondo quelli per i quali che ne so gli atleti perdono al taglio del traguardo.
No.
Erano porzioni di tempo ancora minori.
Porzioni di tempo infinitesime, per una sensazione di imbarazzo infinita.
Perché dico wroom?
Non saprei ho sempre avuto l’impressione che quello fosse il rumore della manifestazione della mia timidezza sul mio volto.
Wroom.
Anche il rumore wroom dell’invalicabile ulteriore muro che si ergeva tra me e il mondo quando sentivo l’inarrestabile rovente scarica viola.
Wroom.

A come amore – forse un giorno sarà bello ricordare tutto questo

Pensavo come alle volte la vita possa sembrare irriverente e lesiva, ma si rivela invece sensibile e celebrativa.
Ti si presenta lì all’improvviso con la sua dose di ironia e sta a te poi deciderne il gusto, amaro o dolce.
E alle volte l’assurdità di determinate situazioni ti dona una certa euforia rivitalizzante.

Perché a me è successo, mi è successo che mi è venuto tanto da ridere di fronte al riesumarsi di una vicenda successa un quarto di secolo fa.
Mi ha fatto ridere per l’assurdità della situazione e mi ha fatto ridere perché ho scoperto che quell’episodio era stato scomposto dai miei enzimi, una parte assimilato come sostanza nutritiva e riutilizzabile per esperienze future ed una parte espulsa come rifiuto tossico.

Non pensavo che ce l’avrei fatta.

All’epoca avevo circa 15 anni, sì la maggior parte dei ricordi ora sono un po’ confusi e annebbiati, e solo alcuni episodi sono vividi.

Non ricordo come l’ho scoperto, né tantomeno quale è stato il giorno in cui l’ho saputo.
Ora mi appare come se fosse stato un giorno qualunque all’improvviso, dopo la sveglia della mattina.
C’è vento e piove, non fa altro che piovere, il caffelatte è pronto e mio padre ha una relazione con un’altra donna, va bene due cucchiaini di zucchero per me e mi sa che oggi metto anche il cappello perché fa freddo, ah sì e con chi e da quando?

Credo di ricordare che lui ne avesse parlato con mia sorella, per chiedere consiglio, o per metterla a conoscenza.
Ricordo perfettamente chi è lei e la sua fisionomia dell’epoca, mio padre è una persona cui parte un treno ogni dieci minuti e quella era la volta dei viaggi, così aveva preso una piccola quota dell’attività di lei.

La ricordo perché all’epoca io volevo fare l’attrice e lei dice che aveva uno che conoscevo un altro che stava nel giro insomma mi sono ritrovata più volte in un gruppo di comparse per film che questo tipo organizzava.
Ricordo il mio atteggiamento distaccato nei suoi confronti.
Ricordo che proprio non mi andava a genio, ma non so mica perché, perché io ancora non sapevo, sarà stato perché lei aveva una tendenza a fare la simpatica con me, la sdolcinata, l’apprensiva, troppe attenzioni non richieste.
Ricordo che quando l’ho saputo la rabbia mi è salita dal profondo e il rancore nei confronti di chi mi aveva messo in quella situazione è diventato un fuoco indomabile.
Ricordo la cena di Natale, ecco quella la ricordo.
Ricordo una telefonata e mio padre che esce di casa perché arrivano i cinesi e bisogna controllare non so quale prenotazione di quale albergo e la porta di casa che sbatte e mia madre che urla e mia zia che cerca di calmarla e la porta della cucina che si chiude alle loro spalle.
E io che però un po’ sento quello che si dicono perché i muri sono sottili e perché io sono l’unica che è rimasta fuori dalla porta e che però mia zia dice che forse è meglio che anche io sappia, e no, non devo ancora sapere, ancora no, sono ancora troppo piccola, dicono.
Ricordo poi una sera a cena e loro che litigano e mia madre che si alza urlando e urla che va ad ammazzarsi che va a buttarsi giù dal balcone. E io che non riesco a dire niente e mi chiedevo sempre che effetto mi avrebbe fatto la paura, mi avrebbe paralizzato o mi avrebbe fatto reagire?
Ecco l’ho scoperto la paura mi paralizza. Tutto. Gli arti. Il respiro. La voce. Ma l’udito no. Quello mi si amplifica e mi rimbomba.
Mi ammazzo. Mi ammazzo. Mi ammazzo. Mi butto giù dal balcone. Mi butto giù dal balcone. Mi butto giù dal balcone. Dal balcone.

Ricordo che mia madre mi ha raccontato di aver messo un santino sotto il cuscino e che pregava perché tutto si sistemasse.
Ricordo che scrivevo sul mio diario che non sapevo come facesse lei a sopportare tutto questo.
Ricordo che scrivevo che avrebbe dovuto cacciarlo di casa.
Ricordo di essermi ripromessa che quando sarei diventata grande ricca e famosa avrei portato mia madre in giro per il mondo per farle vedere tutti quei posti belli che desiderava.
Ricordo che mia madre ha iniziato ad andare in palestra, forse per sfogo o per distrazione, ricordo che è dimagrita tanto da arrivare ad una taglia 40, e che per una che da giovane era considerata una bonona formosa è tanto.
Ricordo che mi è sembrato che il tutto durasse un tempo infinito.

Ma non ricordo quando è veramente finito.

Ora mi appare come se fosse stato un giorno qualunque all’improvviso, dopo la sveglia della mattina.
C’è il sole, non fa altro che splendere il sole, il caffelatte è pronto e mio padre non ha più una relazione con un’altra donna, va bene due cucchiaini di zucchero per me e mi sa che oggi non lo metto il capello perché fa caldo, ah sì e da quando?

Ricordo che non avevo più la sensazione di essere sopra una barca alla deriva in balia della burrasca, senza comandante e scialuppe di salvataggio.

Ricordo che sono finite le urla e la tensione.

E non so se sia stata lui a lasciare lei o viceversa.

E ti dicevo come la vita possa sembrare alle volte irriverente e lesiva, ma si rivela invece sensibile e celebrativa.

Perché io mi sono ritrovata in Florida, che tu vai lì in vacanza per non pensare per prenderti quel tempo solo per te e l’ultima cosa cui pensi è che dopo quasi un quarto di secolo conosci a cena un uomo la cui sorella lavora con quella che 20 anni fa ti ha mezzo distrutto la famiglia, ha cercato di portarti via il padre, e ha fatto tanto soffrire tua madre.

E ti viene da ridere.

E infatti ridi.

Ed è un euforia surreale e imprevedibile.

Ed anche lui ride, ma non è una risata di scherno è disapprovazione nei confronti di una donna ormai 65enne che continua a vivere come quando ne aveva 40.

E scopri che tuo padre non è stato l’unico uomo alla mercé di questa signora, oltre a lui ce ne erano altri ed in contemporanea, perché lei vive così, prima ed ora.

Sorridi perché la vicenda è ora illuminata da un’ulteriore luce, sotto quel riflettore tuo padre ti appare semplicemente come un uomo, che magari l’ha saputo di non essere l’unico, che magari anche lui era in balia di una tempesta.

Sorridi perché vedi chiaramente la forza di tua madre che ha lottato per non mandare in frantumi la sua vita e quella della sua famiglia.

Sorridi perché ti riscopri a volere bene alle due persone più importanti della tua vita che durante l’adolescenza hai spesse volte disprezzato.

Ridi perché scopri che la vita è sensibile, con delicatezza ha aspettato il tempo giusto, ha aspettato che tu metabolizzassi il tutto, ha aspettato il momento in cui riproporti la faccenda proprio quando tu non hai più la vista annebbiata dalla rabbia, come quando il cielo è terso e riesci a distinguere i particolari del panorama senza confonderli.

Ridi perché scopri che la vita è celebrativa, celebra due persone che hanno sorpassato un periodo buio che li ha portati a festeggiare 43 anni di matrimonio sfidando ogni probabilità.

Revocate animos maestumque timorem mittite: forsan et haec olim meminisse iuvabit.**
Richiamate agli ordini gli animi e mettete da parte il triste timore: forse un giorno sarà bello ricordare tutto questo.

Eneide Libro I